Nei paraggi del più prestigioso Teatro Festival Italia, mescolato fra i teatri cittadini meno in vista, si è tenuto l’interessante Fringe Festival, rassegna-satellite di teatro emergente che ha presentato una serie di spettacoli di giovani compagnie – spettacoli per lo più autoprodotti – in cerca di visibilità e di giudizio. Il buon livello professionale di questa manifestazione ha mostrato tuttavia, quasi sistematicamente, un punto di comune fragilità nella poca robustezza delle drammaturgie; abbiamo assistito perciò, nella maggior parte dei casi, a discrete rappresentazioni di testi mediamente esili.
Non si sottrae a questo paradigma lo spettacolo Orfani - La nostra casa, autrice Fiammetta Carena, presentato dalla compagnia Kronoteatro al Trianon Viviani, con la regia di Maurizio Sguotti, che è anche tra i protagonisti della messa in scena. La condizione esistenziale dello sradicamento e la conseguente deriva comportamentale ed etica sembrano essere il tema portante di questo lavoro; ed è quanto mai opportuno dire cautamente “sembrano”, perché il testo procede con una programmatica approssimazione del senso, un simbolismo che da un lato è metafora trasparente e dall’altro sovrapposizione indefinita di significati, tali da non consentire – in modo evidentemente deliberato – una ricostruzione unica del senso. Un gruppo di giovani raggiunge l’universo chiuso della scena – un luogo connotato solo emotivamente dalla limitatezza dello spazio – ed è costretto a sperimentare la relazione reciproca sotto la guida ieratica ed essenziale di un’anziana e indefinibile figura. La dichiarata fragilità dei soggetti favorisce un’interazione aggressiva, solipsistica e indifferente all’altro, sicché il gruppo non si struttura mai a cellula sociale. Il capo carismatico trasferisce ai personaggi smarriti i dettami di un’etica manichea ed arcaica, puntellata sulle profezie misteriose di un testo sacro. I ragazzi si nutrono di quella mistica intransigente, riempiono la loro identità di obbedienza, diventano ritualmente brutali; poi si preparano ad un’azione finale, che rimane del tutto imprecisata.
L’impressione che si riceve da questo spettacolo è che il programmato sgranamento testuale e la ridondanza di simboli siano ingredienti dati in pasto allo spettatore per provocare una molteplicità di significati; e che tuttavia i livelli simbolici evocati siano troppo prevedibili, segni ‘consunti’ che non si ricombinano in alcuna significativa novità. Se questo era il progetto di scrittura, valeva senz’altro la pena di essere ben più radicali; il testo proposto aggrega situazioni troppo tipiche, al punto da sembrare il prodotto un po’ scolastico di un percorso di laboratorio. Interessante invece, sotto l’aspetto della regia, la scelta dell’assetto scenico: lo spazio del palcoscenico, sigillato sui quattro lati, ospita una pedana riempita di terreno – così si avverte anche fisicamente il tema delle radici – e tutta l’azione spinge su una corporeità che prorompe sotto il naso del pubblico, disposto ai lati della scena, e si fa odore e vapore, fino ad esercitare persino una certa pressione percettiva sullo spettatore.
Apprezzabile la prova del gruppo di giovani protagonisti − Tommaso Bianco, Alberto Costa, Vittorio Gerosa, Gabriele Lupo, Nicolò Puppo − che riescono a liberare una notevole energia espressiva, in opposizione alla quiete consapevole del “maestro”, dal canto suo un po’ troppo concentrato a lavorare sul contrasto con gli “allievi” per essere pienamente nella parte.
Teatro Trianon Viviani – Napoli, 26 giugno 2009
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